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Dalla redazione
martedì 14 aprile 2020

Calice&Penna

37 Parallelo prima riserva 2010 – Azienda Agricola Basile

Alberto Costa


Calice & Penna è la nuova rubrica di AIS Veneto dove pubblichiamo i contributi dei nostri soci. Se ti piace scrivere e vuoi cimentarti con un racconto su un vino che ti ha colpito, su un viaggio o su una tua personale wine experience, contattaci su [email protected] e riceverai indicazioni sul format richiesto. La redazione provvederà alla selezione per la pubblicazione. 

 

Ogni volta che arrivo a Pantelleria vengo travolto da un inspiegabile pathos: impossibile opporsi alla parte irrazionale dell'animo che dal primo istante te la fa amare o odiare. È netta la percezione di calcare una terra nata dal fuoco e plasmata dal vento, dal mare, da genti e da culture diverse che sfocia in contrasti profondi.

Recuperata la macchina esco dalla capitale dell’Isola-Stato, il cui nome fenicio era Yranim, per poi diventare Cossyra sotto la dominazione romana. Imbocco la mussoliniana strada “perimetrale” - tra le opere tese a trasformare l’isola in una “portaerei inaffondabile” - e in un batter d’occhio mi trovo a passare per Mursia. A malapena distinguo il nero e selvaggio paesaggio dai resti dei Sesi, che oltre 3.500 anni fa l’hanno popolata per la prima volta. Con un crescente senso di inquietudine osservo come lo Shurhuq innalzi onde altissime che si arrampicano sulla tagliente falesia di Punta Fram, la più giovane tra le terre emerse dell’isola nata solo 10.000 anni fa dall’eruzione del Monte Gelkmar. L’aria profuma di mediterraneo ed è carica del salso di quel mare amico-nemico, unico magnifico scenario di sfondo di ogni orizzonte di Pantelleria. Nel frattempo, giro verso l’entroterra con destinazione Bukkuram, località costituita da una manciata di case il cui nome è eredità delle colonizzazioni arabe così come i caratteristici terrazzamenti in cui è possibile ammirare ancora oggi la tecnica di allevamento ad alberello della vite.

Un raglio di Ciucchina anticipa il mio arrivo a Fabrizio e Simona che mi attendono. Vengo fraternamente accolto nella cantina realizzata dalla combinazione di un antico damuso e di una ex falegnameria di epoca aragonese, sapientemente ristrutturata strappandola alla rovina del tempo. L’aspetto e il carattere del vigneron pantesco sono una perfetta sintesi dell’isola: un vulcano più vivo che mai, che placidamente lavora la vigna proprio come dopo millenni la Montagna Grande, con calma apparente, continua a fare sotto i nostri piedi. Ci addentriamo nel vigneto con in mano una bottiglia speciale: il contrasto tra la trasparenza cristallina dei bicchieri e le mani consumate che li trasportano è l’omaggio alla viticultura eroica intesa come lotta dell’uomo contro la natura per promuovere attraverso i suoi prodotti questa stessa terra.

Ascolto rapito la storia dello Zibibbo, il cui arrivo a Pantelleria è ancora avvolto nel mistero, anche se un importante indizio sembra essere già contenuto nel suo nome: l’evocazione di un’origine nordafricana, da Cap Zebib in Tunisia o da zabib che in arabo significa uva passa. Nel continente quest’uva viene chiamata Moscato d’Alessandria d’Egitto, forse retaggio dal sancrito muskà o dal persiano musk, termini che nelle rispettive antiche lingue significano “sensazione aromatica”. Recenti studi hanno dimostrato che lo Zibibbo è nato dall’incontro tra le varietà moscato bianco, antichissimo e padre dell’intera famiglia dei moscati, e della Trifera, conosciuta nelle isole elleniche come Eftakoilo, cioè 7 chili a rappresentarne la sua grande produttività e fertilità.

Fabrizio alleva il suo zibibbo in piccole parcelle disposte in un immaginario ferro di cavallo che parte dai 200 m.s.l. delle terrazze di Bukkuram nella parte centro-meridionale dell’isola per poi risalire progressivamente verso la centrale Siba, spingendosi ai 450 m.s.l. di Mueggen e della piana di Ghirlanda fino ai 550 m.s.l. di Montagna Grande, per poi ridiscendere nuovamente verso le parcelle orientali di Barone e Cuddia che si affacciano sulle sottostanti famose terme di Gadir. Il criterio di selezione degli appezzamenti è legato alla possibilità di avere temperature più basse rispetto la costa pur godendo della migliore esposizione; la matrice pozzolanica e la tramatura sabbiosa permettono un ottimo drenaggio, pur non perdendo la capacità di trattenere l’umidità notturna, e grazie alla costante ventilazione ci sono tutti gli ingredienti necessari a garantire il raggiungimento di una buona acidità fissa nelle uve, nonché la possibilità di lavorare in vigna in regime di massima riduzione di fitofarmaci. Nelle annate migliori la vendemmia manuale garantisce dai 35 ai 40 q.li per ettaro sebbene il disciplinare conceda un limite quasi triplo, ma questo è ciò che la natura permette.

La rara bottiglia che stiamo per assaggiare nasce dalla sperimentazione su un appezzamento nella zona di Bonsulton a sud di Bukkuram: nel tentativo di fortificare la parte radicale delle piante, nel 2010 Fabrizio decide di lasciare incolta la vigna ispirandosi all’anno dello Shabbat. A causa dell’assenza di trattamenti, l’erba incolta è arrivata a nascondere intere parti della vigna così che, avendo ritardato la vendemmia al 29 settembre, il vignaiolo si è trovato a raccogliere e lavorare con uve aventi diversi gradi di maturazione, da acerba fino a surmatura. Nasce un vino fiore con un’anomala spalla acida e un importante grado alcolico: decide allora di affidarlo alle cure di un tonneau per tre anni senza eseguire alcuna ricolmatura, dando vita a qualcosa di nuovo ed incredibile per quest’isola.

Rimossa la cera lacca ed estratto il tappo dalla bottiglia ho la possibilità di vivere tutte le contraddizioni di Pantelleria condensate in un unico pensiero liquido: ritrovo il sole nel bicchiere, che come un marchio enologico dell’isola si manifesta in un arcobaleno di lucenti gialli che sfumano dall’oro antico pur continuando a ricordare il lime. Al naso sono netti e potenti gli aromi della saporita cucina siciliana: dapprima un croccante torrone di mandorle aromatizzato alla resina, che evolve in sensazioni di dattero, quindi zafferano ed uva passa su uno sfondo iodato poco prima respirato a Punta Fram. Sensazioni dolci eppur salate. Poi l’assaggio, in cui il palato, tradito dal naso, viene colto alla sprovvista da un’inattesa freschezza e dalla totale assenza di dolcezza. La base sapida sostiene con forza la sensazione gustativa del vino che torna a sublimarsi nel naso esplodendo in una vertiginosa sequenza di ricordi aromatici dello zibibbo ed eleganti note del Cognac. Paiono trascorrere interminabili i minuti dopo il primo sorso e nonostante un’intensa e continua salivazione “lui” rimane aggrappato alla volta palatina richiamandone la beva. Vino stravagante e di una complessità unica che mi invoglierebbero ad accendere un sigaro Nostrano del Brenta e staccare un “tocco” di cioccolato modicano IGP al pistacchio. È un sorso pantesco fatto di quelle contradizioni che non sempre trovano una spiegazione logica e scontata, ma proprio per questo o te lo fanno amare o te lo fanno odiare. Prosit.

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