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La forma del vino

La transitorietà dei recipienti di un liquido potenzialmente eterno. Dalla cantina alla tavola, l’eterna lotta fra contenuto e contenitore

di Massimo Zanichelli

 

Forma o contenuto? L’annosa quaestio sul primeggiare dell’una o dell’altro, su cui da sempre il pensiero umano si dibatte e s’incaglia, trova nel vino – oggetto di conoscenza estetica – una soluzione inaspettata e assolutista: essendo un liquido, senza dunque forma propria, il vino assume quella del recipiente in cui viene versato, diventando contenuto. La gioia dei formalisti sarà temperata dalle implicazioni esistenziali: nel contenitore che lo ospita il vino nasce, cresce e invecchia seguendo la stessa inesorabile freccia del tempo delle nostre vite (non a caso si parla del vino come di un individuo). Se la sostanza (contenuto) che lo genera (lo informa) è l’uva, i contenitori che lo accolgono, arrecandone figura, genere ed espressione, sono quelli transitori della maturazione (i vasi vinari) e quelli più definitivi dell’affinamento (le bottiglie). 

 

I vasi vinari

 

Qui, in contenitori di materiale diverso (neutri come l’acciaio o meno neutri come il legno), il vino trae la sua origine. La prima forma sostanziale – “L’aspetto esteriore con cui si configura ogni oggetto corporeo” o “in senso più astratto, modo di essere, di presentarsi” (Vocabolario Treccani) – viene acquisita con la fermentazione e ancora di più con la macerazione, dove il vino acquista connotati importanti, tra cui il suo colore e il suo tessuto (il tannino). È detta vinificazione in rosso ma viene usata anche per i bianchi, i quali assumono un aspetto più intenso e acceso sul piano cromatico, che dal giallo grano arriva all’arancio (sono infatti detti orange wine), con conseguenze sui contenuti sensoriali: seducenti all’olfatto, impegnativi al palato, tannici al gusto. Questi vini “macerativi” vengono sovente vinificati in anfore di terracotta o argilla, anche interrate, un contenitore dell’antichità che oggi rappresenta un ritorno a un’idea ancestrale di enologia opposta alla più comune vinificazione in bianco. L’anfora ha forma a punta, è fonoassorbente e ha cessioni minime (precursore di questo recipiente, Joško Gravner sta ora sperimentando vasche in vetro da 10 ettolitri e serbatoi in acciaio vetrificato da 70 ettolitri). Le vasche in cemento vetrificato, tornate in auge dopo un periodo di oblio, sono neutre. Eccellenti isolanti termici capaci di mantenere una temperatura costante, garantiscono con la loro moderata porosità uno scambio minimo con l’ambiente esterno – un’ossigenazione “omeopatica”, per così dire, che evita le riduzioni, specie sul lungo periodo – ideale per una maturazione stabile del vino. Non casualmente, questo materiale torna nelle anfore di cocciopesto (malta solidificata) o in recipienti ovoidali, comunemente detti “uova” o “ovetti” secondo le loro dimensioni, realizzati con singole colate di calcestruzzo. In tempi altrettanto recenti si sono associati a questi vasi vinari i Clayver, botti in ceramica (grès porcellanato), che, come i precedenti contenitori, favoriscono una polarizzazione del frutto e del tannino, un’espressione fluida e armonica. I contenitori in terracotta, cemento o ceramica si oppongono alle vasche d’acciaio inossidabile, tecnologiche, ermetiche, versatili, che ad alcuni interpreti della contemporaneità sembrano chiudere il vino in forme più rigide, neutre, inerti. 

Il mondo del legno è un capitolo a sé, fascinoso e controverso: con le sue cessioni, tanniche e aromatiche, può esaltare o sfigurare l’anima di un vino. Negli anni in cui imperava lo stile “internazionale” doveva per statuto essere piccolo e nuovo (barrique, i tonneau erano più capienti) e chi non si allineava, cioè chi ancora usava le botti grandi, era considerato un retrogrado. Il risultato erano vini, rossi (soprattutto) e bianchi (di rincalzo), compressi dal rovere, muscolari, vanigliati, appariscenti: Barolo modernisti e Pinot Nero tostati, in cui la ricetta del “Super Tuscan” o dei bordolesi “americanizzati”, dolci e speziati, regnava sovrana come una koiné. Non era, beninteso, la barrique a essere un male in sé, quanto l’uso improprio che se ne faceva. Più di recente si è tornati a un’interpretazione, dunque a una forma, più classicista, meno rococò, con barrique e tonneau di media tostatura e non necessariamente di primo passaggio, e soprattutto botti di più grandi capacità in rovere di Slavonia, capaci di ossigenare il vino con la loro porosità senza eccessi di rilascio o d’incisione sulla fase aromatica.

La transizione dalla botte chiusa alla botte scolmata genera un’altra forma, quella di un vino che non è più “in ossigenazione” ma “in ossidazione” (il Vin Jaune della Jura, lo Sherry di Jerez, la Malvasia di Bosa). Lo “spirito degli angeli” evapora e il vino si protegge dalla furia dell’ossigeno formando sulla propria superficie una flor, un “velo” protettivo di lieviti ed enzimi che produrrà un côté terziario (frutta secca, sentori salmastri) invincibile allo scorrere del tempo. Il passaggio dalla botte chiusa al caratello sigillato (un tempo con la ceralacca, oggi con il cemento, ancora lui) produce un altro profilo enoico, quello del Vin Santo da uve appassite e da mosti fatti lungamente fermentare/invecchiare a contatto con le vecchie madri (impasto gelatinoso ed enzimatico): colore mogano, sentori complessi (mallo di noce, fichi, liquirizia), viscosità.

 

Le bottiglie

 

Dai vasi vinari che generano il vino alle bottiglie che lo contengono il passaggio segna un’altra forma, un altro contenuto. La bordolese è affusolata ed elegante come i vini che contiene. La borgognona, più conica, fa presagire una maggiore centralità del frutto. L’albeisa, sua variante dalle spalle più basse, traduce una dimensione rurale-verace mai latente nei rossi piemontesi. La renana è slanciata, verticale come i bianchi (il Riesling, soprattutto) che custodisce per svariati decenni. La champagnotta presenta un rigonfiamento centrale dove migliaia di bollicine sono pronte a librarsi nell’aria. Nei formati superiori – dal litro e mezzo del magnum ai quindici del Nabucodonosor – la maggiore capacità incide sulla longevità, sull’identità, sulla qualità (del perlage, dell’evoluzione, del gusto) di uno Champagne. La bottiglia non è solo un luogo d’affinamento ma anche di trasformazione, come avviene proprio nel metodo classico, dove il processo di rifermentazione produce una complessità organolettica sconosciuta agli spumanti in autoclave. Diverso è invece il caso del vino col fondo, detto anche rifermentato in bottiglia (ma chiamato in molti altri modi: radicale, integrale, ancestrale, perfino crudo), che non è spumante ma frizzante, e che non espelle ma conserva i propri fermenti: il colore è più opaco, il sorso succoso, la vivezza impagabile.

Il vino oscilla tra il transeunte e l’eterno, coniuga il contingente e l’assoluto, non è mai un’entità fissa ma dinamica, mobile, elastica. Un’entità plurima dentro cui si nasconde la forma definitiva, quella che trascende la sensorialità, quella che sintetizza la materia, quella che racchiude le proprietà dell’essere.

 

Box 1

 

A ognuno il suo

Il loro effetto è decisivo: servito in bicchieri diversi, lo stesso vino avrà forme differenti sulla nostra percezione. Basta assaggiare un Moscato d’Asti nella tradizione coppa o in un più moderno tulipano per rendersene conto: nella prima si avvertono meno i profumi (peccato capitale per un aromatico), nel secondo il vino arriva al centro della bocca invece che ai suoi lati, favorendo un sorso più completo (sensazione dolce, acida, sapida). “Un bicchiere sbagliato sottrae al palato almeno il 25% della qualità di un vino” ha detto Georg Riedel. C’è un bicchiere adatto per ogni tipo di vino, dal bianco giovane al rosso da invecchiamento, dal rosato al fortificato. Più sono leggeri più la degustazione si trasforma in una nuvola di piacere.

 

Box 2

 

Cancelliamo i pregiudizi

Non incidono sulla forma di un vino ma conservano e proteggono la sua espressione, sono i garanti della sua resa. Perché dunque continuare ad affidarsi al tappo in sughero, le cui incidenze negative sul vino hanno ormai raggiunto percentuali statistiche preoccupanti, invece che optare per chiusure alternative, prima tra tutte il tappo a vite? Un recente studio comparativo della Fondazione Mach, condotto dalla dott.ssa Silvia Carlin e dal prof. Fulvio Mattivi), sui vini, bianchi e rossi, degli Svitati – un gruppo di produttori-pionieri (cantine Franz Haas, Graziano Prà, Jermann, Pojer e Sandri, Vigneti Massa) che stanno facendo massa critica a riguardo – ha messo in luce il minor impatto dell’ossigeno, con tutte le conseguenze del caso, nella chiusura con il tappo a vite rispetto a quella con il sughero. Ermetico, inerte, sostenibile (è in alluminio), facile da usare (il cavatappi non serve più), perfino comodo per ritappare le bottiglie: cos’altro serve per superare abitudini e pregiudizi?

Pubblicato: 8 maggio 2025
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