Wine Experience
Dalla redazione
sabato 6 dicembre 2014

Un sorso per ricominciare, da ieri

Pensieri di degustazione dalla verticale “evento” per il trentennale dei vini di Primo Franco

Giuseppina Martino


lIn ogni epoca ci sono delle figure predestinate ad essere ignari promotori di un cambiamento, o lasciarne traccia, rispetto all’ordine naturale delle cose. Sono coloro capaci di avere una visione secondo cui l’ ”ordine” non è assoluto e “naturale” è invece la propensione verso l’incognita del futuro per la quale nessuno può avere formula certa e che sottende una fiduciosa rincorsa prima del lancio, a volte recidendo i legami con una tradizione rigida ed ottusa che non tollera il nuovo nel timore di perdere identità, a volte creandone dei nuovi con quelle frange più sagge che ci identificano rispetto al luogo. È questa l’impressione di un incontro con una delle figure più emblematiche della nicchia prosecchistica, organizzato dalla delegazione dell’Associazione Italiana Sommellier di Treviso, Primo Franco. Affascinante il racconto degli esordi di un giovane Primo a capo dell’azienda di famiglia, dopo la prematura scomparsa di papà Nino nel 1982, in una terra ancora legata al prosecco bevuto a suon di “goti”, privo delle ambizioni di conquista arrivate qualche decennio dopo. La cifra tonda festeggiata quest’anno, trenta per l’esattezza, della prima bottiglia che segna la gestione della generazione numero tre dell’azienda, è stata celebrata con una verticale dedicata di vecchie annate, condivisa a tappe nel mondo, che a ben vedere può definirsi storica, per non dire unica, considerata la notorietà del vino quale di immediata proposta di consumo rispetto alla sua “vita cronologica”. L’assaggio quasi goliardico di quella bottiglia del ’56 dimenticata in un angolo della cantina, vintage di nonno Antonio, fu l’illuminazione di un cammino qualitativo che Primo ha ereditato, preservato e trasformato, innalzando quel vino semplice a vino di rango tra i più apprezzati al mondo. Nella sua prima vendemmia, 1983, egli coniuga quell’ispirato ritorno al passato, fatto di residui zuccherini ben evidenti, in antitesi allo snello e conforme brut che avanza, ed acidità non invadente, con la sua visione delle cose forgiata dal contatto con un esclusivo mondo esterno, vissuto ed indagato, base di quella conoscenza e coscienza che lo differenzia dalla locale realtà. Un vino innovativo, un singolo cru, astrazione mentale pressoché sconosciuta ai quei tempi tra le colline valdobbiadenesi -salvo rare conosciute eccezioni- e tanto diverso dal contesto di un modello di consumo “ bevi e fuggi”, antonimia alla visione edonistica che da un manipolo di uomini, Primo compreso, avrebbe di lì a poco levato quelle semplici bollicine da alimento ad oggetto di piacere per i sensi. Il proprio nome sulla bottiglia oggi sembra essere la firma a quel voluto e necessario messaggio di cambiamento nella continuità. Il millesimo in etichetta è il sigillo alle caratteristiche dell’annata catturate attraverso un lavoro sobrio e serio ed affidate alla memoria del tempo. Il tempo, da sempre unità di misura per giudicare la qualità di un vino che di fronte a questo brand sembra essere quasi fallace e che determina un naturale e comprensibile scetticismo che si attenua fino a scomparire man mano che il vino si palesa ai sensi. 2013, 2003, 2000, 2005, 1997, 1992.
Una linea continua che sinuosa si muove tra le varie geometrie animate dalla brillantezza dell’aspetto e il bouquet aromatico che evolve quasi in blocchi posizionandosi ad altezze diverse nello spazio per intensità e finezza. Ogni sorso pennella la bocca di dolce classicità, un sapore che torna dal passato quando il vino si definiva dolce in opposizione all’amaro e l’acidità era un piacevole accompagno. Tutti i vini degustati potrebbero definirsi saporiti, in un equilibrio fresco-sapido sorprendente, vivacizzato in alcuni casi dalle bollicine ancora presenti, in altri dalle note minerali.

 

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