Morello Pecchioli
La carbonara non è un piatto, è un campo minato, una palude piena di sabbie mobili e di alligatori. Qualsiasi cosa si dica sull’origine, sugli ingredienti (guanciale o pancetta?), sul tipo di pasta (spaghetti, bucatini o rigatoni?), sul formaggio (pecorino o parmigiano?), si rischia di finire davanti al plotone di esecuzione di cuochi, nouveaux cuisiniers, gourmet, giornalisti e storici di gastronomia. Siccome a noi piace «offrire il petto alle nemiche lance» (Giacomo Leopardi, All’Italia), eccoci qui a raccontare la genesi della carbonara come l’abbiamo sentita 14 anni fa dal suo inventore: Renato Gualandi, uno dei più grandi cuochi italiani contemporanei (è morto nel 2016 a 95 anni) al quale ancora non sono sono stati resi gli onori e le verità che merita.
Ma prima di raccontare la genesi della carbonara, liberiamo il campo dalle ipotesi senza fonti storiche e dalle bufale. È vero che la carbonara è il piatto italiano più imitato al mondo? Vero. Lo rivela un’indagine dell’Accademia italiana della cucina, l’Istituzione culturale della Repubblica Italiana che tutela le tradizioni della nostra cucina nel mondo. È vero che la carbonara si chiama così perché nata nell’ambito della Carboneria, la società segreta post napoleonica? Bufala clamorosa. L’unico appetito di Morelli, Silvati, Ciro Menotti, Confalonieri e Pellico era per la libertà e la Costituzione. Si chiama carbonara perché la mangiavano di gusto i carbonai dell’Appennino preparando cataste di legno da trasformare in carbone? Falso. La carbonara è di origine romanesca? Falso. Nessun ricettario prima della metà del ‘900 ne parla. «Quando ho fatto il militare a Bracciano negli anni Sessanta», racconta Paolo Petroni, presidente dell’Accademia italiana della cucina, «si trovavano nelle trattorie carbonare con pancetta e uova intere. Erano carbonare un po’ stracciatelle che solo in seguito furono perfezionate con sughi cremosi a tuorli crudi. Il guanciale, poi, era introvabile. Cresciuta di fama la carbonara ha subìto numerosi cambiamenti. Qualcuno da brividi, se penso alla Smoky tomato carbonara pubblicata sul New York Times».
Luciano Pignataro, giornalista gastronomo del Mattino avanza l’ipotesi che sia Napoli la culla della carbonara (ma, pudicamente, avverte «per campanilismo») riconducendola ad una ricetta «co caso e ova sbattute» presente nella Cucina teorica pratica di Ippolito Cavalcanti (1837).Vero, falso? Vera la ricetta, ma non era la carbonara. Furono i soldati americani a dar l’idea a qualche oste romano di spignattare uova in polvere e bacon delle loro razioni K? Fake news: le razioni K Usa contenevano di tutto, dai biscotti al brodo, dalla limonata al caffè, ma non bacon e uova in polvere che facevano, comunque, parte dei vettovagliamenti yankee.
Veniamo alla nascita della carbonara come l’ha raccontata Renato Gualandi il 2 marzo del 2007 in un pranzo a casa sua presenti il sottoscritto, lo scrittore e giornalista romagnolo Giancarlo Roversi, suo grande amico ed esperto della cucina regionale; il fotografo professionista Davide Ortombina; il maestro risottaro veronese Gabriele Ferron, l’uomo che ha insegnato ai cinesi, sul palcoscenico della Grande Muraglia, a preparare il risotto all’italiana.
Ecco i fatti. 21 settembre 1944. Gli alleati anglo-americani sfondando la Linea Gotica arrivano a Riccione, organizzano una cena di gala all’Hotel Vienna, sede del quartier generale del generale canadese, Eedson Burns. «Burns», raccontò Gualandi, «fece le cose in grande. Tra i suoi ospiti c’era il ministro inglese Harold Macmillan, il comandante in capo delle forze alleate Harold Alexander, il generale britannico Oliver Leese. Mi fu affidato il menu della serata con gli ingredienti messi a disposizione dagli alleati: spaghetti canadesi, bacon in abbondanza, tuorli d’uovo in polvere, crema di latte. Tagliai il bacon a julienne, lo tostai, aggiunsi la crema di latte, l’uovo, un po’ di formaggio e lasciai cuocere il tutto a basso calore. Accompagnai il piatto con pezzetti di pane perché i commensali potessero gustare fino in fondo il sughetto della carbonara e alla fine ci aggiunsi un’abbondante spolverata di pepe nero macinato fresco. Ricordava la polvere di carbone. Di qui il nome: carbonara». Figlia della guerra, ma di padre italiano.
Gualandi, personaggio grande e modesto, ammise che l’idea gli era venuta in Slovenia, dov’era soldato prima dell’8 settembre. «Ebbi l’occasione di cucinare e gustare una loro minestra fatta con tortellini e speck. Di qui l’idea di usare spaghetti al posto dei tortelli, bacon al posto dello speck e di aggiungere polvere d’uovo, formaggio fuso, pepe e pezzetti di pane». Tutto un altro piatto. Il trionfo fu completo quando Gualandi presentò il dolce agli illustri ospiti: un maestoso plumcake ghiacciato che raffigurava le due torri di Bologna: l’augurio di arrivare al più presto alla liberazione della città.
Dopo quel banchetto, la carriera di Gualandi decollò. A Riccione lavorò al Des Bains e all’Hotel Vienna. Trasferitosi a Bologna aprì un ristorante, il “3G”, che divenne un tempio della cucina italiana. Ai suoi tavoli sedettero Beniamino Gigli, Toti Dal Monte, Macario,Wanda Osiris, Tyron Power, Rascel, Ugo Tognazzi, Anna Magnani, Cesare Zavattini, Pasolini, Bacchelli, Soldati, Togliatti, Saragat, Enrico Mattei... «Ma la più grande soddisfazione della mia vita», raccontò, «l’ebbi nel 1963, quando i francesi mi consegnarono il brevetto della loro cucina e mi fecero Gran Cancelliere della Commanderie des Cordons Bleus». Fu l’unico cuoco italiano ad essere ammesso all’Eliseo a cucinare per De Gaulle. Fu lui a realizzare il pranzo in onore della Regina d’Olanda a Valkenburg.
Peccato che il 6 aprile scorso, al Carbonara Day, che l'anno scorso coinvolse oltre 500 milioni di persone, pochissimi si siano ricordati di lui. E quei pochi con notizie confuse ferocemente contestate dagli amici di Gualandi. Igles Corelli, grande cuoco romagnolo, su Repubblica, ha riferito il ricordo dello chef Silverio Cineri secondo il quale Gualandi era a Roma nel 1944 dove cucinò, insieme ai suoi commilitoni, una cena cui erano presenti un generale americano e uno inglese. In cucina arrivarono formaggio fuso, uovo liofilizzato, bacon, burro e crema di latte con i quali Gualandi avrebbe preparato un “mappazzone”. Altro argomento: impossibile che Gualandi abbia realizzato la carbonara a Riccione perché in quel caso sarebbe diventato un piatto della tradizione romagnola e non romana. «Balle, imbecillità», s’incattivisce Roversi. «Gualandi ha fatto il militare in Slovenia e non è mai stato a Roma. L’episodio è uscito per dar alla carbonara una patente di romanità. Che ragionamento è che se la carbonara fosse nata a Riccione sarebbe diventata una pietanza della tradizione romagnola? Quel piatto lo conobbero solo i generali e i loro ospiti. La gente lo conobbe e amò dopo la guerra». «E non è vero», incalza Gabriele Fabbri, organizzatore della rievocazione storica del famoso banchetto, «che non manteniamo la tradizione. Ogni anno il 21 settembre organizziamo una grandiosa manifestazione con mezzi militari, soldati in uniforme che servono in tavola, band scozzesi e col famoso menù di Gualandi. Chi dice che era militare a Roma dice una fesseria. Era a Riccione, dove arrivò scappando dalla Slovenia, per ritrovare la morosa, Lucia Berardi, che poi si sposò».
La prima ricetta della carbonara è stata pubblicata in Italia nel 1954 sul numero di agosto del La Cucina Italiana. Come formaggio si suggerisce il gruviera: una carbonara con i buchi. Negli anni ’60 Luigi Carnacina e Luigi Veronelli curano La Grande Cucina imponendo il guanciale alla pancetta e suggerendo «qualche cucchiaiata di panna liquida e molto cremosa». Un consiglio, quest’ultimo, che sarà loro contestato a lungo.
Tratto da "La Verità"